Alfabeto, Tomaso Binga

Erté e Tomaso Binga: il corpo come alfabeto, l’alfabeto come corpo

31 Mar 2025 | Storia dell'arte, Riflessioni, Uncategorized

Nella sua peculiarità di primaria nozione, l’alfabeto è un elemento che – quando reinterpretato – dà vita ad una strana chimera, qualcosa che conosciamo profondamente ma che può portare con sé significati totalmente nuovi.

Nel caso in cui questa reinterpretazione implichi un processo di antropomorfizzazione della lettera, il discorso si fa ancora più interessante. Rendere umana una lettera, nel suo essere grafia, va a generare quello che Roland Barthes chiama «lo spirito della Lettera».

Partendo da un emblematico e celebre passo del Vangelo, la Lettera (che uccide) viene contrapposta allo Spirito (che, invece, vivifica). L’“asimbolia” della Lettera si accosta ad uno spirito che, nell’immaginario collettivo, non ha quasi mai uno spazio del simbolo, ma solo del senso. L’interpretazione è quindi qualcosa di associabile alla sfera dello spirito e non a quella della lettera.

D’altro canto, con un sovvertimento di questi presupposti, nell’epoca moderna si è assistito per Barthes ad un ritorno alla materialità grafica della lettera come elemento irrinunciabile nonostante l’origine sonora: la lettera ritorna ad essere un profondo crocevia di simboli.

Prendendo in prestito sempre le parole di Barthes ne L’ovvio e l’ottuso: «Una lettera vuol dire e non vuol dire insieme, non imita e tuttavia simbolizza, mette contemporaneamente alla porta l’alibi del realismo e quello dell’estetismo».

Effettivamente, in epoca moderna si è assistito a due esempi di personalizzazione della lettera, molto diversi fra loro nella resa e soprattutto negli intenti, ma ugualmente significativi nell’ottica di un’interpretazione della lettera stessa nella sua vuotezza e pienezza insieme, nel suo essere al contempo contenitore e contenuto.

Questo articolo si ripropone di costruire un parallelismo fra due alfabeti – quello di Erté e quello di Tomaso Binga – mettendone in luce le parecchie differenze da un lato e la fortissima assonanza dall’altro.

Un alfabeto dal gusto Art Déco

Nato a San Pietroburgo nel 1892, Erté si afferma presto come uno dei massimi protagonisti dell’Art Déco, che trova nel suo tratto elegante e sofisticato una delle espressioni più compiute. Erté si trasferisce a Parigi nel 1912 e dà il via alla sua brillante carriera da artista, diventando il corrispondente per la rivista russa Ladies Fashion. Nel corso dell’anno successivo, inizia a collaborare con lo stilista Paul Poiret e già nel 1915 diventa illustratore per le copertine di Harper’s Bazaar, Cosmopolitan e Vogue. Col passare degli anni, la sua originalità lo porta a lavorare come costumista per il teatro e il cinema, dando vita a modelli di vestiti e disegni per tessuti che segnarono per sempre la storia della moda.

L’Alfabeto di Erté, realizzato negli anni ‘20, è costituito da una serie di illustrazioni in cui ogni lettera è trasformata in un vero e proprio moto visivo, un disegno sontuoso che fonde femminilità e cura del dettaglio, design e riscrittura del simbolo, Art Déco e atemporalità. 

Le lettere di Erté sono donne dalle linee essenziali, appena accennate; silhouette aggraziate dalle forme asciutte e vorticose allo stesso tempo.

Scrive Barthes: «Per essere conosciuti, gli artisti devono attraversare un piccolo purgatorio mitologico: è necessario che si possa associarli a un oggetto, a una scuola, a una moda, a un’epoca di cui sono, si dice, i precursori, i fondatori, i testimoni o i simboli; in una parola, che si possa classificarli con poca spesa, assoggettarli a un nome comune, come una specie al suo genere. Il purgatorio di Erté è la Donna.»

Nell’alfabeto di Erté, ogni lettera si fa occasione per celebrare la figura femminile, trasformata in elemento grafico ma non spogliata della sua sensualità. Le figure, realizzate seguendo i canoni estetici di quegli anni, si piegano, si allungano, si avviluppano con eleganza assumendo la forma delle lettere, in un gioco che fonde calligrafia e figurazione.

Le sue composizioni, caratterizzate da linee fluide e decorativismo lussureggiante, trasformano l’atto di scrivere, elevandolo a una vera e propria esperienza estetica. L’alfabeto diviene quindi un catalogo di pose plastiche, una danza immobile di corpi che, nella loro artificiosità, celebrano il trionfo dell’ornamento. Un’ottica che rende la donna di Erté venerata, sì, ma alla stregua di mero oggetto di decorativismo.

Il corpo femminile come strumento di sovversione

Tomaso Binga, pseudonimo dell’artista italiana Bianca Pucciarelli Menna, nasce a Salerno il 20 febbraio del 1931. Poetessa e performance artist italiana, indaga – fin dalle prime performance negli anni Settanta – il rapporto che intercorre fra poesia e pittura, legando indissolubilmente parola e gesto artistico. Bianca Pucciarelli Menna è accostata in maniera inscindibile al suo alter ego, che ha sposato nel ’77 inscenando una cerimonia ufficiale presso la galleria romana Campo D e segnando un momento netto di metamorfosi, da donna ad artista. Già dalle prime performance basate sul gesto (Vista Zero, 1972) e successivamente sul gesto combinato alla scrittura (Nomenclatura e l’Ordine Alfabetico, 1973-1974), l’artista è passata nel 1977 a opere come Poesia Muta, Ti scrivo solo di Domenica e Io Sono una Carta, dalla forte impronta femminista, affidando alla sola sonorità della parola un compito di denuncia sociale e di presa di posizione in una società ancora prettamente maschilista.

L’Alfabeto di Tomaso Binga, proprio nel contesto di quella società degli anni Settanta, rappresenta un potentissimo mezzo di sovversione. In esso sono condensati e si relazionano in modo strettissimo due temi fra i più cari all’artista: il potere del linguaggio e l’espressività del corpo. Questo Alfabeto celebra la capacità della donna di riappropriarsi del linguaggio – di un linguaggio e del proprio linguaggio – di riappropriarsi del proprio corpo e di generare, letteralmente, una propria narrazione: «Non vogliamo più sentirci entità astratte, ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane».

Una decostruzione del linguaggio (proprio in senso barthesiano) come strumento di potere, per di più compiuta attraverso il corpo nudo dell’artista, che pur nella sua nudità viene percepito dall’osservatore come strumento asettico, assolutamente non passivo e privo di una qualunque accezione sessuale. L’artista dissolve l’identità primitiva dei singoli elementi alfanumerici (e, allo stesso tempo, anche della stessa nudità del suo corpo), trasformandoli da simboli fissi in segni aperti all’interpretazione, elementi fluidi e malleabili che possono essere riappropriati e trasformati. Gli ideogrammi si fanno invito verbo-visivo: se, come sostiene Binga, «scrivere non equivale a descrivere», allora ogni osservatore è libero di proiettare su questi testi la propria soggettività.

Due visioni a confronto: il corpo come alfabeto, l’alfabeto come corpo

Sono cinquanta gli anni che dividono Erté da Tomaso Binga. Il corpo è avvolto in stoffe preziose in un caso, nudo nell’altro. E anche quando la nudità popola le lettere di Erté, non è mai pienamente nudità; come scrive Barthes, subentra in Erté quell’elemento del corpo femminile che – per la sua natura e per la sua storia – appare quasi come «una promessa di vestito, cioè la capigliatura», appendice semantica e simbolica di quelle lettere.

Sono molte le differenze ideologiche e formali rintracciabili fra i due alfabeti, nelle correnti artistiche d’appartenenza, nel contesto storico, nell’urgenza alla base della creazione. Nondimeno, ciò che si palesa come apparentemente più antitetico, ovvero il ruolo della donna protagonista, rappresenta in realtà uno degli elementi di maggiore vicinanza.

Citando L’ovvio e l’ottuso: «Nell’alfabeto generalizzato di Erté c’è scambio dialettico: la Donna sembra prestare alla Lettera la sua figura; ma reciprocamente, e con sicurezza molto maggiore, la Lettera conferisce alla Donna la sua astrazione: figurando la lettera, Erté infigura la donna (ci si permetta questo barbarismo, necessario poiché Erté toglie alla donna la sua figura – o almeno la fa svaporare – senza sfigurarla): uno slittamento continuo si impadronisce delle figure di Erté; trasforma le lettere in donne, ma anche le gambe negli elementi verticali delle lettere. Si capisce ora l’importanza della silhouette nell’arte di Erté (già si è parlato del suo senso ambiguo simbolo e segno, feticcio e messaggio): la silhouette è un prodotto essenzialmente grafico: essa fa del corpo umano una lettera in potenza, essa chiede di essere letta». In entrambi gli alfabeti le donne-lettere subiscono un processo di evaporazione e si fanno segno; per ragioni estetiche in un caso, di protesta nell’altro.

Sia per Erté che per Tomaso Binga, la lettera diventa non più segno astratto ma organismo vivente al punto da doverlo personificare, riconoscendo in essa un potenziale semantico che supera di gran lunga la semplice rappresentazione figurativa. Il corpo-lettera diviene dunque portatore di nuove istanze culturali, riflettendo preoccupazioni estetiche, sociali e politiche del proprio tempo e, proprio per questo, portando apparentemente i due alfabeti in due direzioni tanto distanti.

Barthes scrive in Variazioni sulla scrittura che «Da una parte e dall’altra, la scrittura-lettura si dilata all’infinito, impegna l’uomo nella sua interezza, corpo e storia; è un atto panico, del quale la sola definizione certa è che “non potrà fermarsi da nessuna parte”». Sia Erté che Tomaso Binga ci ricordano che la scrittura non è mai un atto neutro, la rendono “corpo” e questo corpo si veste – o sveste – della storia che l’ha prodotto. Ci ricordano che le parole sono gesti, movimenti, posture; sono corpi che scrivono e che, scrivendo, generano nuovi significati.

Introduzione alla cancellatura

Nell’arte della seconda metà del Novecento, la cancellazione non comporta un rinnegamento della parola; al contrario, la mette in risalto nella sua lacerazione, assenza, incomprensibilità. Indipendentemente dal suo legame con il libro, la parola cancellata è per gli artisti un faro puntato: si pensi a Basquiat che cancellava lettere e intere frasi per attirare l’attenzione dei fruitori: «Cancello le parole in modo che le si possano notare. Il fatto che siano oscure spinge a volerle leggere ancora di più». La cancellatura non annulla – pertanto – la parola, la rende immagine nel suo essere negata alla lettura.

All’interno di un discorso di relazione fra il visivo e la parola, per quanto contraddittorio possa sembrare, proprio la negazione dell’elemento verbale rappresenta una fortissima evidenza di un rapporto che si intreccia in maniera indissolubile. Quello della parola illeggibile, tagliata, sottintesa, cancellata, indecifrabile, strappata, nascosta – in una parola, negata – rappresenta uno dei leitmotiv nel variegato ambito delle ricerche verbo-visuali della seconda metà del secolo. Il massimo esempio di questo processo risiede probabilmente nello svuotamento del libro. Cosa diventa un libro che non si può leggere? Se fino a questo momento la parola era stata resa immagine estrapolandola dal suo contesto originario, “naturale”, come le pagine di un libro, il processo compiuto tramite questa provocazione rende immagine non la parola, ma l’assenza di essa.

»Un’assenza che si fa presenza, metafora di ciò che non c’è, e riesce in questo modo a comunicare un messaggio. Proprio questo principio è quanto si può riscontrare nel Libro dimenticato a memoria del 1969, di Vincenzo Agnetti; scrive Lorella Giudici su D’Ars, «Non è censura, ma profondità infinita; non è assenza ma eloquente pensiero, luogo ideale, estensione dove tutto è possibile perché immaginabile e… dimenticabile». O ancora, il Libro illeggibile di Bruno Munari, che non contiene parole ma una serie di pagine tagliate e sagomate, quello che l’artista definisce un “racconto visivo”, in cui natura della carta, spessore, trasparenza, formato delle pagine, la morbidezza e la durezza, il lucido e l’opaco, le fustellature e le piegature comunicano qualcosa al fruitore. Un millimetro di Pietro Consagra, del 1971, un libro con dei fogli di metallo, dello spessore – appunto – di un millimetro, che in trasparenza fa emergere dalle lamine una serie di segni; un libro, anche questo, senza alcuna parola al suo interno, svuotato del suo significato e per questo caricatosene di uno nuovo.

Il libro privo di parole – ma pieno di significato – per eccellenza è però probabilmente quello di Emilio Isgrò, artista che ha fatto della cancellatura la sua firma. Isgrò spiega che le cancellature hanno la funzione di provocare un’assenza, perché – scrive Restany – il fruitore «vorrà sempre sapere “‘cosa c’è sotto”. Ma allo stesso tempo (e in questa funzione è molto importante) sono un preciso, inequivocabile segno linguistico. Non tanto un vuoto da riempire, quanto una “presenza”, un pieno compatto, che sollecita e contemporaneamente rifiuta ogni proiezione da parte del lettore».

Per Isgrò, la Cancellatura è adesione e, al contempo, distacco da ciò che si sta cancellando. Cancellature che hanno lo scopo di restituire alle sue opere una parola avente la potenza dell’immagine, e un’immagine con la duttilità della parola: fondendole insieme. Isgrò ha iniziato cancellando riviste e stralci di quotidiani, e negli anni è arrivato a cancellare l’Inno Nazionale, I promessi sposi, la Costituzione e persino l’Enciclopedia Treccani. Un processo costruttivo, dunque, e non distruttivo; spiega l’artista: «La prima è la poesia visiva in cui la parola viene rafforzata dall’immagine. Come se la parola occidentale per salvarsi avesse bisogno dell’immagine per resistere. La seconda proposta fu quella di cancellare la parola insieme all’immagine. Ciò avvenne quasi contemporaneamente, quasi nell’ottica di una fusione nucleare, facendo saltare contemporaneamente i codici portanti della comunicazione umana (appunto la parola e l’immagine).»

La mostra al MACC di Scicli: “L’opera delle formiche”

Inaugurata il 6 maggio e conclusasi oggi, 3 novembre 2025, la mostra al MACC di Scicli ha proposto un acuto e illuminato percorso attraverso l’arte della cancellatura di Isgrò, rendendo la sua Sicilia palcoscenico e, al contempo, oggetto trasversalmente in scena.

La prima Cancellatura di Isgrò risale al 1964, sul ritaglio di un quotidiano, con segni orizzontali eseguiti con l’inchiostro nero. Già in questa prima cancellatura è riscontrabile il principio che poi guiderà l’artista nel corso della sua carriera: cancellare per evidenziare. Per Isgrò «la cancellatura preserva l’esistenza della parola. L’esistenza della parola come reale possibilità di parlarsi tra gli uomini. La cancellatura è nata per scoprire, coprendo, il valore dei rapporti umani fondato su una reale possibilità di comunicare. È fondata su una preservazione della parola per quando servirà. È fondata per creare, non per distruggere». A questo proposito, Bruno Corà parla, a proposito di Isgrò, di doppia percezione simultanea, di obliterazione e rivelazione insieme: «l’attenzione dell’osservatore è scissa tra la volontà di cogliere il senso del nuovo messaggio e, contemporaneamente, di interrogarsi su ciò che non è leggibile e tuttavia si percepisce sotto i segmenti di segni neri della cancellatura».

Si tratta di una mostra – L’opera delle formiche – che è così intrinsecamente legata alla Terra che la ospita da uscire fuori dalle mura del MACC, invadendo quasi impercettibilmente la piazza antistante al museo, Piazza Busacca. Fulcro e filo conduttore della mostra, infatti, è l’installazione monumentale che occupa il corridoio centrale del museo e si estende simbolicamente nello spazio urbano, raffigurante un’orda di formiche che attraversa cesti colmi di carrube dorate. Le formiche, che appaiono per la prima volta nell’opera La rotta dei catalani e inaugurano il cosiddetto “ciclo degli insetti”, sono fondamentali per l’artista che le rende “cancellature mobili”, sovrapponendole al testo per creare un dialogo aperto tra natura e cultura. Creature dalla straordinaria capacità di sopravvivenza, laboriose, sempre in movimento. Salgono sulla segnaletica del museo, si arrampicano sui tetti delle sale espositive e, addirittura, escono su piazza Busacca e invadono la statua di Pietro Di Lorenzo detto Busacca. La scelta, come ha osservato Bruno Corà, ha voluto sottolineare che è ora di “cancellare” e dunque di «sfatare la sentenza gattopardiana secondo cui la Sicilia sia la terra dove tutto deve cambiare affinché tutto rimanga com’è».

La mostra scandaglia la lunga carriera dell’artista, dagli articoli di giornali – Titolo di giornale (all’opera) (1962) e Titolo di giornale (prodigiosa attività) (1962) – alle prime cancellature di due anni dopo, i “particolari ingranditi” degli anni Settanta, i libri inediti del Gattopardo (1976), passando per i Codici ottomani (2010) e le cancellature in rosso, dei più recenti anni di ricerca. Un’esposizione che accende un faro sulla cultura mediterranea, attraversandola con le parole della letteratura, con i suoi volti e attraverso le sue mappe (tutto, inutile dirlo, rigorosamente cancellato). L’attenzione alla cancellatura è puntuale, quasi chirurgica nell’analisi della sua evoluzione, ma è ancora più stimolante l’attenzione ai simboli. Ad esempio le carrube, ammucchiate in ceste e accuratamente – ma non tutte – dorate per l’occasione. Simbolo di ricchezza e di crescita per il territorio sciclitano e ragusano in generale, il seme della carruba viene chiamato anche “carato”: dal nome greco del legume (kerátion) deriva anche il “carato”; al seme, infatti, corrisponde esattamente il peso di 1/5 di grammo e nell’antichità era considerato contrappeso ideale per l’oro. Le carrube, però, per tantissimo tempo sono state utilizzate come mangime per gli animali, in particolare per i maiali. Il mondo contadino ragusano aveva trovato in questo legume, abbastanza “inutile” all’epoca, una preziosa fonte di reddito. Oggi, le carrube vengono utilizzate nel territorio in maniera estremamente duttile, e la nobilitazione – giusto tramite l’oro – di un legume dato letteralmente “in pasto ai porci” nella storia di questa Terra, sembra chiudere un cerchio lungo millenni.

Nel Chiostro del MACC, ad accogliere il visitatore, l’opera Non uccidere (2023), realizzata da Isgrò in collaborazione con Mario Botta, che ha disegnato il padiglione accogliente. Un’opera prepotente nei confronti dello spazio circostante, ma allo stesso tempo delicata nell’approccio al visitatore, quasi fosse un invito ad attraversarla, a infilarsi in essa, letteralmente e concettualmente.

Il dispositivo segnico di Isgrò si rivela geniale nell’idea che lo guida, preciso nella sua semplicità, ma allo stesso tempo estremamente plasmabile. E Isgrò lo plasma, lo adatta, lo muta e lo riporta alla sua semplicità. Ad esempio, nella sala che vede dispiegarsi alle pareti i “libri cancellati”, sono stati affiancati la cancellatura dell’Enciclopedia Treccani. Vol. IV, Albero genealogico (1970), il grande Clemens (1971) e i tre telex, La replica di Allende (1973), La questione agricola (1974) e Telex G19 (1974); ma anche i due omaggi a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Le stelle del Principe di Lampedusa (1976) e La finestra del Principe di Lampedusa (1976). La collocazione a parete dei libri, come fossero vere e proprie tele, è un’invenzione tutta dell’artista siciliano, una modalità prima del tutto inusuale e oggi consolidata ed entrata nell’immaginario comune. Sottolinea inoltre Corà che «va considerato che nel caso della cancellatura dei volumi della Enciclopedia Treccani non può essere trascurato l’effetto di una latente valenza antinozionistica risultante dal gesto cancellatore».

Emilio Isgrò ha reso la cancellazione “cancellatura”, ha inglobato l’azione stessa dell’atto di cancellare in una pratica artistica e ne ha fatto la sua firma. Questa mostra sciclitana ha saputo esporre una carriera intera, al passo di centinaia di formiche, ripercorrendo una rielaborazione del visuale che ha rivoluzionato il linguaggio artistico, riscrivendo il rapporto tra parola e immagine nelle arti visive con un approccio del tutto nuovo, una commistione che non solo ha saputo rendere tangibile, un’assenza, ma ha portato l’inchiostro dell’opera pittorica a interagire con quello dell’opera letteraria, stampata, in una modalità che ha saputo annullare i confini tra tela e pagina, tra segno grafico e disegno.
Isgrò si definisce «sicilianista ma non siciliano» (e, scrive, ne «soffrirebbe non poco il mio compagno di liceo Vincenzo Consolo»), eppure, dentro le sale del MACC, emerge una lettura della Sicilia che espone la sensibilità di chi, la Sicilia, l’ha capita veramente e l’ha saputa raccontare.

l'Autrice

Paola Pulvirenti

Mi chiamo Paola Pulvirenti, ho ventiquattro anni e frequento un master in Management dell’arte e dei beni culturali presso la Treccani. Sono nata a Leonforte, un piccolo paese nelle terre di Proserpina. Dopo aver vissuto gli anni della triennale a Catania, mi sono trasferita a Ravenna e ho concluso un percorso di laurea magistrale in storia dell’arte, volto alla tutela, alla valorizzazione e alla comunicazione del patrimonio.

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