Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice

La consapevolezza di Orfeo

18 Dic 2024 | Riflessioni, Letteratura

Perchè Orfeo si volta?

Breve introduzione alla storia di Orfeo e motivazioni tradizionali attribuite alla sua decisione

«Ciò che è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai».

«Ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν», «Orfeo dal nome famoso». Orfeo, il cui “nome famoso” richiama subito alla mente musica e poesia, amore e morte, mortalità e immortalità; artista poliedrico nella cui immagine si configura la sagoma del poeta archetipo.

Il mito di Orfeo e del suo mancato ricongiungimento con Euridice rappresenta un esempio perfetto di dualità e contraddizione, di inversione: un mito che inizia con un lieto fine, con la celebrazione di un matrimonio d’amore, e che finisce tragicamente; un mito in cui poesia e musica, perfettamente incarnate nella persona di Orfeo, non riescono a fargli ottenere una vittoria nei confronti della morte di Euridice, nonostante la loro condizione di immortalità perfettamente consolidata nell’immaginario comune.

Orfeo riesce a scendere nel regno dell’Oltretomba. Come Teseo, Eracle, Odisseo ed Enea prima di lui, anche Orfeo intraprende con successo una catabasi, ammaliando persino Ade col suo canto straziante e straziato: ciò che muove Orfeo è il dolore, e il dolore – rispetto all’amore – è un sentimento con una potenza ancora più universale. Egli riesce a ottenere ciò che lo aveva spinto a sfidare gli Inferi: può riprendersi la sua Euridice a patto, però, di non voltarsi finché entrambi non siano usciti dall’Ade. Ma Orfeo si volta. Scrive Virgilio nelle Georgiche:

«[…] quando un’improvvisa follia colse l’innamorato imprudente (cosa da perdonarsi, se i Mani sapessero perdonare): si arrestò e ormai presso la luce, dimenticò – ahimè – e vinto nell’animo dalla passione, gettò uno sguardo indietro alla sua Euridice. Li tutta la sua fatica andò distrutta e furono infranti i patti fissati dal signore spietato, e per tre volte si udì un fragore sopra gli stagni d’Averno».

Ovidio, invece, descrive così la scena nelle Metamorfosi:

«E non erano ormai tanto lontani
dalla meta agognata quando Orfeo,
nel timore che lei non lo seguisse,
smanioso di vederla, si voltò:
in quell’istante, come risucchiata
da un vortice implacabile, Euridice
scivolò indietro e tendendo le braccia
cercava invano di aggrapparsi a lui
e d’essere afferrata, ma, infelice,
altro non strinse che l’aria sfuggente.»

Un atto estremamente veloce. La rotazione della testa di pochissimi gradi, sufficienti per determinare la fine di una felicità quasi assaporata. Un dolore lacerante, quello di Orfeo, nella misura in cui quel singolo attimo, quel singolo movimento gli ha definitivamente fatto perdere Euridice. Dimenticanza, timore, bramosia: sentimenti umani che rendono l’impulsività di un secondo infelicità di un’esistenza, ma che sono così universali – nella loro umanità – da fare sì che quell’attimo sia stato analizzato e reinterpretato da innumerevoli artisti nel corso dei secoli. E se il mito è un paradigma, in molti vi hanno intrecciato la propria sensibilità rendendo quella rotazione immortale, sempre diversa.

Antonio Canova, Orfeo ed Euridice, 1775-1776. Venezia, Museo Correr

Antonio Canova, Orfeo ed Euridice, 1775-1776. Venezia, Museo Correr

 La figura di Orfeo nel contesto del mito e delle fonti antiche

Orfeo, divino cantore e kitharodos. La leggenda lo vuole figlio della musa Calliope e di Eagro, un dio-fiume della Tracia; secondo alcuni era addirittura figlio di Apollo. La cetra, il suo strumento, è capace di ammaliare gli animali feroci e smuovere persino le pietre. In un mondo, quello greco, in cui la lamentazione funebre è prerogativa quasi esclusiva delle donne, Orfeo la rivendica alla voce maschile, sostituendola alla libera manifestazione pubblica del dolore che era concessa ai guerrieri omerici ma che mai comprendeva una tale espressione di pena. E questo canto-lamento, che si estrinseca in una relazione simpatetica ed egemonica con la natura, viene trasposto da Orfeo da una sfera fino a quel momento sociale a un atto, invece, “individuale, isolato e asociale”.

Le prime testimonianze nelle fonti circa la figura di Orfeo, oltre a quella del già citato poeta Ibico, ricorrono già a partire dal V secolo a.C. con accenni in diverse tragedie, quali ad esempio Ifigenia in Aulide e le Baccanti di Euripide, o ancora le Bassaridi di Eschilo, oggi perduta. Proprio dalla capacità di Orfeo di controllare la natura – in queste opere già chiaramente messa in evidenza – deriva la sua abilità di imporsi anche sul regno dei morti con facilità.

In quanto eroe che precede la generazione dell’epos omerico, Orfeo viene già citato da Apollonio Rodio nelle Argonautiche fra gli eroi che accompagnano Giasone: «Ma Orfeo / sollevò nella sinistra la cetra e diede inizio al suo canto».

E ancora Platone, nella Repubblica, mette in bocca a Fedro un paragone fra Orfeo e la figura di Alcesti; Virgilio racconta la vicenda del cantore a chiusura delle Georgiche e sotto forma di epillio, in una versione quindi concentrata e paritetica; e Ovidio, nelle sue Metamorfosi, mette in atto uno smorzamento dei toni e una correzione ironico-realistica dell’ultima parte del poema, ponendo la figura di Orfeo come massimo esempio di un nuovo modo di amare, di un nuovo costume erotico-sentimentale.

Si può, poi, ritracciare il personaggio in un richiamo da parte di Catullo, nel poemetto Culex; o ancora di Boezio, nel De consolatione philosophiae (VI sec. d.C.). Quest’ultimo, pur collocando il mito in ambito pagano, pone una base per le successive rivisitazioni cristiane, che identificheranno Orfeo che scende negli Inferi con Cristo Salvatore.

La lettura allegorizzante di Boezio è il primo esempio moderno di traduzione del mito, come espressione di una realtà lontana e diversa che si fa specchio e rifrazione del mito stesso.

A partire da questo momento, il mito traghetterà per tutto il Medioevo fino al Novecento, intessendosi con i costumi culturali dell’epoca e rendendo Orfeo un eroe civilizzatore e un artista dal cuore buono, massimo simbolo in epoca umanistica e rinascimentale di “umanissimo poeta”.

Auguste Rodin, Orfeo ed Euridice, 1887-1893. New York, Metropolitan Museum.

Auguste Rodin, Orfeo ed Euridice, 1887-1893. New York, Metropolitan Museum.

La rilettura di Rilke e le reinterpretazioni novecentesche del mito in cui è possibile riconoscerne le tracce

Copia romana di un bassorilievo attico del V secolo a.C., Orfeo, Euridice ed Hermes, I sec. a.C. – I sec. d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Copia romana di un bassorilievo attico del V secolo a.C., Orfeo, Euridice ed Hermes, I sec. a.C. – I sec. d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le fonti, come si è potuto constatare, delineano un Orfeo con diverse sfumature addosso, un Orfeo sempre diverso, che si volta per i più disparati motivi. Ciò che viene messo in luce, almeno fino all’opera di Rainer Maria Rilke, è lo stato d’animo di un Orfeo che si ritrova a convivere con la propria scelta e la cui vita prende strade diverse ma di certo tutte inizialmente imbevute di dolore.

Ciò che segna sicuramente uno spartiacque nella percezione del mito, al punto da influenzare notevolmente le riletture successive, è l’ipotesi di ciò che a Euridice è successo dopo la morte, il modo in cui l’Oltretomba ha cambiato il suo essere. Euridice era sempre la stessa? Perché Orfeo non può guardarla prima di essere uscito del tutto dal regno dell’Ade? Ricordiamo che nella mitologia “dall’Ade non si ritorna, se non in sogno” e che “il mondo dei morti è un altro paese”.

Nella poesia Orfeo. Euridice. Hermes., che indubbiamente trae la sua ispirazione dal bassorilievo conservato oggi al MANN (immagine sopra), Rilke scrive:

«Ormai non era più la donna bionda che altre volte nei canti del poeta era apparsa, non più profumo e isola dell’ampio letto e proprietà dell’uomo. Ora era sciolta come un’alta chioma, diffusa come pioggia sulla terra, divisa come un’ultima ricchezza. Era radice ormai…».

Euridice è quindi un’altra Euridice, non più la fanciulla amata dal protagonista: Orfeo l’ha persa nel momento in cui il serpente ha affondato i suoi denti nella carne di lei. Può, chi è stato penetrato dalla morte, essere capace di amare? Essere capace di ‘esistere’? Si prenda in analisi l’Alcesti di Euripide, che contiene un riferimento esplicito ad Admeto come ad un Orfeo “disarmato”, e si confronti anche con il Simposio di Platone, che evidenzia nella figura di Orfeo un narcisistico desiderio, “dal momento che si era dimostrato imbelle, citaredo qual era, e non aveva osato morire per amore al pari di Alcesti, quanto piuttosto aveva cercato il modo per scendere vivo all’Ade”. Oltre agli evidenti rimandi alla figura di Orfeo, è particolarmente rilevante che anche in Euripide Alcesti, tornata al mondo dei vivi, non sia più quella di prima, almeno in un primo momento. Nel V sec. a.C., dunque, è già ravvisabile l’idea di un regno dei morti il cui segno andrebbe a permanere in qualche modo anche dopo un eventuale ritorno.

Rilke parte da un bassorilievo che guarda all’antico, ma attua una rielaborazione che vede Orfeo consapevole della propria scelta. Scrive Gesualdo Bufalino ne L’uomo invaso: «allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta». Forse il vero scopo del viaggio di Orfeo non era stato riprendere Euridice, ma ritrovare una sua contezza, ritrovare se stesso. Nel buio degli Inferi, Orfeo si gira a guardare Euridice quando scorge la luce, quella stessa luce che ha sempre rappresentato il raggiungimento di una consapevolezza.

Nel 1926, Jean Cocteau debutta a teatro con la tragedia Orphée. L’esergo dell’opera recita: «Com’è brutta la felicità che desideriamo. Com’è bella l’infelicità che abbiamo». Orfeo utilizza quello stesso dolore che ha reso universale il suo mito per arrivare a comprendere che non avrebbe più potuto ricongiungersi alla ‘sua’ Euridice.

Scrive Pavese nel 1947, in Dialoghi con Leucò: «L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto». E ancora: «Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai».

Dunque, la tragicità del voltarsi per dimenticanza, timore, bramosia, per troppo amore diventa qui un gesto deliberato, lucido, consapevole. Un’evoluzione di prospettiva che parte dalla reinterpretazione di Rilke e che si sviluppa per tutto il Novecento, toccando ogni ramo della rappresentazione artistica.

E se Monteverdi (1607), Schütz (1638), Gluck (1762), Liszt (1853-54), Stravinskij (1947) – solo per citarne alcuni – avevano messo in musica il mito rifacendosi alle fonti antiche, si può riscontrare nel testo di Roberto Vecchioni, Euridice (1993), un chiaro richiamo alla rivisitazione del mito secondo la versione che vede un Orfeo consapevole e conscio della sua scelta:

«Ma non avrò più la forza
Di portarla là fuori
Perché lei adesso è morta
E là fuori ci sono la luce e i colori
Dopo aver vinto il cielo
E battuto l’inferno
Basterà che mi volti
E la lascio alla notte
La lascio all’inverno»

Tornando a Pavese, l’Orfeo che scende nell’Ade non era più sposo e neanche più vedovo. Cercava se stesso. «Non si cerca che questo». Rilke pone le basi per una riscrittura nella quale si può trovare il senso stesso della poesia. Scrive nel 1999 la poetessa americana Louise Glück:

«I have lost my Euridice, […] / and it seems to me I have never been in better voice; / it seems these songs / are songs of a high order» (Vita Nova).

In quest’ottica, il “se stesso” che Orfeo ritrova è proprio quel dolore, punto di partenza e punto di arrivo. Un dolore di cui si nutre la sua poesia, un dolore che gli ha permesso di compiere la sua catabasi e di tornare indietro, un dolore che è sempre stato – dal primo poeta e cantore a oggi – vero motore di creazione dei capolavori.

Nel 1923, Rilke pubblicherà Sonetti a Orfeo. In particolare, nel XIII sonetto, la figura di Orfeo si immortala e immola come personificazione della poesia stessa:

«Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.
Sii sempre morto in Euridice – innalzati cantando
e, nella pura relazione, ridiscendi celebrando!».

Nella rilettura di Rilke si va, dunque, a sostituire il binomio tradizionale di amore e morte presente nella tradizione greca e latina e vi si sostituisce l’intreccio – molto più complesso – di vita e morte all’interno del concetto stesso di amore, “la registrazione, cioè, della presenza di morte dentro la vita e le sue forme più alte e intense”.

Tutto questo significato è inscritto nel semplice atto di girarsi, in quella semplice rotazione del volto.

Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864. Londra, Leighton House Museum.

Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864. Londra, Leighton House Museum.

 Conclusioni sul rapporto del mito con la contemporaneità

«Povera favola di Orfeo. Anche se tu non ti volterai indietro, non servirebbe lo stesso» (Dino Buzzati, Poema a fumetti).

Nella mitologia greca – che è una mitologia eroica – Orfeo rappresenta un’eccezione: ecco perché gli stessi greci lo collocavano in un “prima” lontano. Prima della città. Prima della guerra di Troia. Un eroe civilizzatore la cui arma era la poesia.

Ogni mito veicola un proprio messaggio, ma soprattutto porta con sé dei propri valori, e il mito emblema di una poesia che arriva a trionfare persino sull’amore, nutrendosi di esso e confondendo con la propria forza i limiti e i confini tra vita e morte, non poteva che sopravvivere attraverso i secoli, sopravvivere non in maniera ‘passiva’, ma come una entità viva, che con lo scorrere del tempo scorre anch’essa.

Il mito greco rappresenta una struttura, un paradigma che si plasma e si evolve adagiandosi su determinati tratti della società attuale, assumendo delle connotazioni ben precise e cambiando – in misura più o meno marcata – le circostanze della narrazione. È nel continuo adattamento alle esigenze di una società che si rivela la carica vitale del mito.

Nel caso di questo mito in particolare, Guidorizzi ha chiaramente messo evidenza come quello di Orfeo sia un eroe di ieri che funziona anche nel mondo di oggi. “Come ogni mito vivente, anche quello di Orfeo continua a rigenerarsi, uscendo dalle porte dell’Ade in cui poi torna periodicamente a sprofondare. La vicenda di Orfeo, con la sua testa staccata dal busto, viaggia attraverso i tempi e si carica lungo il percorso di significati che non sembrano aver esaurito il loro valore e non restano quindi confinati in una sorta di archeologia del sapere”.

Il poeta è solo. Orfeo canta, ama, agisce, lotta e muore da solo. Canta il suo dolore in solitudine: è in questa solitudine che si estrinseca il suo ‘scopo’. Un mito passato alla storia con una “e” in mezzo, Orfeo ed Euridice, ma in cui è la poesia a essere la vera protagonista, è il canto a essere compagno instancabile di un solitario Orfeo.

Orfeo è solo anche quando la sua testa si gira ed egli prende coscienza della propria sorte. L’eroe tragico è tale perché non può compiere una scelta che non sia andare incontro al proprio destino con consapevolezza: è in questa scelta che si estrinseca tutta la tragicità del suo status di eroe. Per Orfeo, facendo tesoro dell’eredità di Rilke, possiamo affermare che ancor più della spedizione con gli Argonauti, della discesa negli Inferi, del patto con Ade, il momento più eroico è proprio quella rotazione del volto, sono quei pochi gradi che lo pongono dinanzi all’immortalità.
E Orfeo sceglie l’immortalità.

«Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai».

Giorgio De Chirico, Orfeo solitario, 1973. Collezione privata.

Giorgio De Chirico, Orfeo solitario, 1973. Collezione privata.

Introduzione alla cancellatura

Nell’arte della seconda metà del Novecento, la cancellazione non comporta un rinnegamento della parola; al contrario, la mette in risalto nella sua lacerazione, assenza, incomprensibilità. Indipendentemente dal suo legame con il libro, la parola cancellata è per gli artisti un faro puntato: si pensi a Basquiat che cancellava lettere e intere frasi per attirare l’attenzione dei fruitori: «Cancello le parole in modo che le si possano notare. Il fatto che siano oscure spinge a volerle leggere ancora di più». La cancellatura non annulla – pertanto – la parola, la rende immagine nel suo essere negata alla lettura.

All’interno di un discorso di relazione fra il visivo e la parola, per quanto contraddittorio possa sembrare, proprio la negazione dell’elemento verbale rappresenta una fortissima evidenza di un rapporto che si intreccia in maniera indissolubile. Quello della parola illeggibile, tagliata, sottintesa, cancellata, indecifrabile, strappata, nascosta – in una parola, negata – rappresenta uno dei leitmotiv nel variegato ambito delle ricerche verbo-visuali della seconda metà del secolo. Il massimo esempio di questo processo risiede probabilmente nello svuotamento del libro. Cosa diventa un libro che non si può leggere? Se fino a questo momento la parola era stata resa immagine estrapolandola dal suo contesto originario, “naturale”, come le pagine di un libro, il processo compiuto tramite questa provocazione rende immagine non la parola, ma l’assenza di essa.

»Un’assenza che si fa presenza, metafora di ciò che non c’è, e riesce in questo modo a comunicare un messaggio. Proprio questo principio è quanto si può riscontrare nel Libro dimenticato a memoria del 1969, di Vincenzo Agnetti; scrive Lorella Giudici su D’Ars, «Non è censura, ma profondità infinita; non è assenza ma eloquente pensiero, luogo ideale, estensione dove tutto è possibile perché immaginabile e… dimenticabile». O ancora, il Libro illeggibile di Bruno Munari, che non contiene parole ma una serie di pagine tagliate e sagomate, quello che l’artista definisce un “racconto visivo”, in cui natura della carta, spessore, trasparenza, formato delle pagine, la morbidezza e la durezza, il lucido e l’opaco, le fustellature e le piegature comunicano qualcosa al fruitore. Un millimetro di Pietro Consagra, del 1971, un libro con dei fogli di metallo, dello spessore – appunto – di un millimetro, che in trasparenza fa emergere dalle lamine una serie di segni; un libro, anche questo, senza alcuna parola al suo interno, svuotato del suo significato e per questo caricatosene di uno nuovo.

Il libro privo di parole – ma pieno di significato – per eccellenza è però probabilmente quello di Emilio Isgrò, artista che ha fatto della cancellatura la sua firma. Isgrò spiega che le cancellature hanno la funzione di provocare un’assenza, perché – scrive Restany – il fruitore «vorrà sempre sapere “‘cosa c’è sotto”. Ma allo stesso tempo (e in questa funzione è molto importante) sono un preciso, inequivocabile segno linguistico. Non tanto un vuoto da riempire, quanto una “presenza”, un pieno compatto, che sollecita e contemporaneamente rifiuta ogni proiezione da parte del lettore».

Per Isgrò, la Cancellatura è adesione e, al contempo, distacco da ciò che si sta cancellando. Cancellature che hanno lo scopo di restituire alle sue opere una parola avente la potenza dell’immagine, e un’immagine con la duttilità della parola: fondendole insieme. Isgrò ha iniziato cancellando riviste e stralci di quotidiani, e negli anni è arrivato a cancellare l’Inno Nazionale, I promessi sposi, la Costituzione e persino l’Enciclopedia Treccani. Un processo costruttivo, dunque, e non distruttivo; spiega l’artista: «La prima è la poesia visiva in cui la parola viene rafforzata dall’immagine. Come se la parola occidentale per salvarsi avesse bisogno dell’immagine per resistere. La seconda proposta fu quella di cancellare la parola insieme all’immagine. Ciò avvenne quasi contemporaneamente, quasi nell’ottica di una fusione nucleare, facendo saltare contemporaneamente i codici portanti della comunicazione umana (appunto la parola e l’immagine).»

La mostra al MACC di Scicli: “L’opera delle formiche”

Inaugurata il 6 maggio e conclusasi oggi, 3 novembre 2025, la mostra al MACC di Scicli ha proposto un acuto e illuminato percorso attraverso l’arte della cancellatura di Isgrò, rendendo la sua Sicilia palcoscenico e, al contempo, oggetto trasversalmente in scena.

La prima Cancellatura di Isgrò risale al 1964, sul ritaglio di un quotidiano, con segni orizzontali eseguiti con l’inchiostro nero. Già in questa prima cancellatura è riscontrabile il principio che poi guiderà l’artista nel corso della sua carriera: cancellare per evidenziare. Per Isgrò «la cancellatura preserva l’esistenza della parola. L’esistenza della parola come reale possibilità di parlarsi tra gli uomini. La cancellatura è nata per scoprire, coprendo, il valore dei rapporti umani fondato su una reale possibilità di comunicare. È fondata su una preservazione della parola per quando servirà. È fondata per creare, non per distruggere». A questo proposito, Bruno Corà parla, a proposito di Isgrò, di doppia percezione simultanea, di obliterazione e rivelazione insieme: «l’attenzione dell’osservatore è scissa tra la volontà di cogliere il senso del nuovo messaggio e, contemporaneamente, di interrogarsi su ciò che non è leggibile e tuttavia si percepisce sotto i segmenti di segni neri della cancellatura».

Si tratta di una mostra – L’opera delle formiche – che è così intrinsecamente legata alla Terra che la ospita da uscire fuori dalle mura del MACC, invadendo quasi impercettibilmente la piazza antistante al museo, Piazza Busacca. Fulcro e filo conduttore della mostra, infatti, è l’installazione monumentale che occupa il corridoio centrale del museo e si estende simbolicamente nello spazio urbano, raffigurante un’orda di formiche che attraversa cesti colmi di carrube dorate. Le formiche, che appaiono per la prima volta nell’opera La rotta dei catalani e inaugurano il cosiddetto “ciclo degli insetti”, sono fondamentali per l’artista che le rende “cancellature mobili”, sovrapponendole al testo per creare un dialogo aperto tra natura e cultura. Creature dalla straordinaria capacità di sopravvivenza, laboriose, sempre in movimento. Salgono sulla segnaletica del museo, si arrampicano sui tetti delle sale espositive e, addirittura, escono su piazza Busacca e invadono la statua di Pietro Di Lorenzo detto Busacca. La scelta, come ha osservato Bruno Corà, ha voluto sottolineare che è ora di “cancellare” e dunque di «sfatare la sentenza gattopardiana secondo cui la Sicilia sia la terra dove tutto deve cambiare affinché tutto rimanga com’è».

La mostra scandaglia la lunga carriera dell’artista, dagli articoli di giornali – Titolo di giornale (all’opera) (1962) e Titolo di giornale (prodigiosa attività) (1962) – alle prime cancellature di due anni dopo, i “particolari ingranditi” degli anni Settanta, i libri inediti del Gattopardo (1976), passando per i Codici ottomani (2010) e le cancellature in rosso, dei più recenti anni di ricerca. Un’esposizione che accende un faro sulla cultura mediterranea, attraversandola con le parole della letteratura, con i suoi volti e attraverso le sue mappe (tutto, inutile dirlo, rigorosamente cancellato). L’attenzione alla cancellatura è puntuale, quasi chirurgica nell’analisi della sua evoluzione, ma è ancora più stimolante l’attenzione ai simboli. Ad esempio le carrube, ammucchiate in ceste e accuratamente – ma non tutte – dorate per l’occasione. Simbolo di ricchezza e di crescita per il territorio sciclitano e ragusano in generale, il seme della carruba viene chiamato anche “carato”: dal nome greco del legume (kerátion) deriva anche il “carato”; al seme, infatti, corrisponde esattamente il peso di 1/5 di grammo e nell’antichità era considerato contrappeso ideale per l’oro. Le carrube, però, per tantissimo tempo sono state utilizzate come mangime per gli animali, in particolare per i maiali. Il mondo contadino ragusano aveva trovato in questo legume, abbastanza “inutile” all’epoca, una preziosa fonte di reddito. Oggi, le carrube vengono utilizzate nel territorio in maniera estremamente duttile, e la nobilitazione – giusto tramite l’oro – di un legume dato letteralmente “in pasto ai porci” nella storia di questa Terra, sembra chiudere un cerchio lungo millenni.

Nel Chiostro del MACC, ad accogliere il visitatore, l’opera Non uccidere (2023), realizzata da Isgrò in collaborazione con Mario Botta, che ha disegnato il padiglione accogliente. Un’opera prepotente nei confronti dello spazio circostante, ma allo stesso tempo delicata nell’approccio al visitatore, quasi fosse un invito ad attraversarla, a infilarsi in essa, letteralmente e concettualmente.

Il dispositivo segnico di Isgrò si rivela geniale nell’idea che lo guida, preciso nella sua semplicità, ma allo stesso tempo estremamente plasmabile. E Isgrò lo plasma, lo adatta, lo muta e lo riporta alla sua semplicità. Ad esempio, nella sala che vede dispiegarsi alle pareti i “libri cancellati”, sono stati affiancati la cancellatura dell’Enciclopedia Treccani. Vol. IV, Albero genealogico (1970), il grande Clemens (1971) e i tre telex, La replica di Allende (1973), La questione agricola (1974) e Telex G19 (1974); ma anche i due omaggi a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Le stelle del Principe di Lampedusa (1976) e La finestra del Principe di Lampedusa (1976). La collocazione a parete dei libri, come fossero vere e proprie tele, è un’invenzione tutta dell’artista siciliano, una modalità prima del tutto inusuale e oggi consolidata ed entrata nell’immaginario comune. Sottolinea inoltre Corà che «va considerato che nel caso della cancellatura dei volumi della Enciclopedia Treccani non può essere trascurato l’effetto di una latente valenza antinozionistica risultante dal gesto cancellatore».

Emilio Isgrò ha reso la cancellazione “cancellatura”, ha inglobato l’azione stessa dell’atto di cancellare in una pratica artistica e ne ha fatto la sua firma. Questa mostra sciclitana ha saputo esporre una carriera intera, al passo di centinaia di formiche, ripercorrendo una rielaborazione del visuale che ha rivoluzionato il linguaggio artistico, riscrivendo il rapporto tra parola e immagine nelle arti visive con un approccio del tutto nuovo, una commistione che non solo ha saputo rendere tangibile, un’assenza, ma ha portato l’inchiostro dell’opera pittorica a interagire con quello dell’opera letteraria, stampata, in una modalità che ha saputo annullare i confini tra tela e pagina, tra segno grafico e disegno.
Isgrò si definisce «sicilianista ma non siciliano» (e, scrive, ne «soffrirebbe non poco il mio compagno di liceo Vincenzo Consolo»), eppure, dentro le sale del MACC, emerge una lettura della Sicilia che espone la sensibilità di chi, la Sicilia, l’ha capita veramente e l’ha saputa raccontare.

l'Autrice

Paola Pulvirenti

Mi chiamo Paola Pulvirenti, ho ventiquattro anni e frequento un master in Management dell’arte e dei beni culturali presso la Treccani. Sono nata a Leonforte, un piccolo paese nelle terre di Proserpina. Dopo aver vissuto gli anni della triennale a Catania, mi sono trasferita a Ravenna e ho concluso un percorso di laurea magistrale in storia dell’arte, volto alla tutela, alla valorizzazione e alla comunicazione del patrimonio.

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